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domenica 3 aprile 2011

Storia del Porto di Pescara e del fiume, nell'antichità: 1a parte di 2




Pescara, per quello che si dirà, ha la sua origine dal fiume e da esso i suoi caratteri, e l’attività dei cittadini. 
Nell’antichità si chiamava Aternum e Aternus il fiume; e, o per portata di acque o per opere umane,doveva avere un porto più importante, nel suo estuario, di quello che oggi sia. 
La Pescara nasce in un luogo detto Peschiera, presso il Monte Civitella, a mt. 1616, nel tenimento di Montereale; passa tra le rovine di Amiternum, per le valli Aquilana e Subequana e conserva l’antico nome di Aterno fino a Popoli. 
Riceve il Sagittario, ingrossato dal Gizio, e a Popoli, ricevendo il breve corso d’acqua che nasce dal vicino Capo Pescara, ne prende il nome e si chiama Pescara fino alla foce. 
La menzione più antica del massimo fiume degli Abruzzi (e secondo in Adriatico, dopo il Po, ndr) risale alla seconda Guerra Punica. Cicerone e Tito Livio ricordano , fra i prodigi avvenuti in quest’epoca storica, che le acque dell’Aterno trasportarono sangue. 
Su questo fenomeno si è scritto da studiosi della regione, poichè è piuttosto frequente e singolare; ma la tinta rossa dipende dal colore delle acque di un torrente che discende da Castelvecchio Subequo e traversando una vallata ove sono terreni formati di ematite e ocra ferruginosa, in occasioni di grandi piogge, li discioglie e li scarica nell’Aterno che si colora di rosso sino alla foce della Pescara. 
Parlarono nell’antichità: nel 79 av. Cristo, Plinio dell’Aterno e del suo porto, Strabone che attestò di aver visto che l’Aterno era navigabile sino alla foce ed era l’emporio dei Marrucini, dei Peligni e dei Frentani e dei Piceni. Altri scrittori antichi e contemporanei affermarono che l’Aterno era navigabile fino alle Casaurie, ai Tre Monti, e ne mostrarono l’importanza commerciale e militare. Infatti, da Roma ad Aterno convergeva la via Salaria, uscendo dalla Porta Collina e passando per Antrodoco, e poi la Claudia, la Flaminia, la Claudia Valeria Nuova, la Tiberina, la Nomentana che da Roma giungeva ad Aterno, passando per Tivoli e per Corfinio. Casa Ed. Sonzogno, 1928-


popoli che abitavano i territori intorno al fiume Pescara al tempo dell'impero Romano (da altervista-corretto)


“(…)La floridezza del commercio non solo arricchì la città , ma rese possibili delle opere portuali che mantennero il tratto di fiume verso la foce in condizioni di piena navigabilità.
Forse l’esistenza delle due foci rendeva migliori le condizioni idrografiche ed evitava l’interramento del tratto che serviva di porto, ma è certo che in Pescara facevano scalo i più grossi navigli che solcavano l’Adriatico e che solo le condizioni  di rifugio del porto permisero la frequenza di esteso traffico con l’Oriente e il conseguente benessere di tutta la città dove, con la coesistenza della navigazione  marittima, sorsero le industrie navali.
Con la decadenza dell’impero romano le sorti di Pescara come città marittima  non mutarono di molto, poiché le esigenze del traffico mantenevano in vita le correnti commerciali  rimunerative alla vita dei popoli più interni. Pochi elementi si hanno per giudicare i fatti attraverso l’oscurità dei secoli XII e XIII: il Caldora che assaltò Pescara nel 1439 deve certamente esservi stato tratto dal desiderio di dominare la forza marittima e commerciale che Pescara toglieva ad Ortona.
Ancora importanza dovette avere Pescara nel 1510 quando Carlo V decise di fortificarla, riconoscendola come baluardo del Regno dal lato dell’Adriatico. I lavori delle fortificazioni durarono per parecchi anni sotto il regno di Filippo II e Pescara divenne una Piazza forte sia dal lato di terra che dal lato di mare. 
Divenuto punto così importante, rigogliosa di commercio e di industria nautica, su Pescara fu attirata l’attenzione dei Turchi che, come è noto, a varie riprese facevano le loro incursioni in Adriatico, operando con le loro galee sbarchi e incendi, e ladroneggiando nelle eterne vicende della guerra marittima col Leone di San Marco...


   La Fortezza nel 1560: divisa dal fiume, in quelle che saranno in seguito parte di Castellammare, a nord, e parte di Pescara vecchia, a sud. La fortezza era circondata da un fossato. Al centro della vecchia foce ad estuario l'isolotto dei "Cannizzi".
Per gentile omaggio della Concessionaria Lancia "Di Domenico Tino - Pescara"
Più o meno, come probabilmente si doveva vedere l'isolotto Cannizzi, scendendo lungo il fiume verso la foce del Pescara.
Immagine presa ad uso dal blog www.buongiornoAfrica.com 

...Correva il 1566 quando Pialy Pascià, ammiraglio turco, decise l’assedio di Pescara con una flotta di 105 galee che si presentarono minacciose davanti alla città.(…) Fu strenuo difensore di Pescara Giovanni Gerolamo Acquaviva. (…) Altri assedi subì in seguito nel 1734, ad opera di Carlo Borbone e quello del 1799, operato dal Pronio, dopo la ritirata dei francesi, contro il forte in cui era rimasto chiuso il Carafa con una piccola guarnigione, che al cospetto della enorme flotta armata alla foce del fiume, alla fine, dovette arrendersi.(…) Malgrado le fortunose vicende della storia, le navi armate  a Pescara per il traffico con l’altra sponda sono state sempre in numero notevole e attestano l’esistenza di uno spirito marinaro che farebbe onore a qualunque regione della nostra patria. (…)" Gino Albi, L’Abruzzo marittimo, pagg. 32-35,1915
                                                                            
Nel 1145, nel 1583, nel 1820 le sponde del fiume, che attraversava la vecchia fortezza di Pescara, dato che nei secoli  aveva avuto sempre una portata minima molto alta ed assicurato quindi una ottima navigabilità  per tutto l’anno, furono sempre meglio attrezzate. 


mappa d'epoca della piazzaforte di Pescara, ripresa dalla mostra "Real Piazza", curata da Licio Di Biase.


Infatti:

"sia l'Aterno che il Sagittario corrono in terreni calcarei nelle cui fratture, piccole e grandi, l'acqua piovana si infiltra, in parte, senza arrivare direttamente all'alveo del fiume.
L'acqua infiltrata, quindi, percorre vie sotterranee e sconosciute con velocità molto inferiori a quella dell'acqua superficiale e riaffiora, magari alcuni mesi più tardi, in punti anche molto distanti dal luogo dove si è verificata la pioggia.
Si può pensare, se si preferisce, ad un grosso lago sotterraneo che "trabocca" nel suo punto più basso.
Si crea, così, una sorta di "volano" dal quale si hanno deflussi quasi costanti e differiti nel tempo.
In particolare i punti di risorgenza sul Pescara sono localizzati a Popoli (sorgente di Capo Pescara) con portata quasi costante per tutto l'anno di circa 5/ mc/secondo, e sul Tirino (sempre vicino a Popoli) che è un fiume con portata quasi costante (10/12 mc/sec) ed in larga misura indipendente dalle precipitazioni.
E' questo il motivo per cui il Pescara ha portata minima, alla foce, abbastanza elevata e fluttuazioni di portata (in caso di pioggia) inferiori a quelle che competerebbero allo stesso corso d'acqua se tutta l'acqua di pioggia arrivasse, come avviene per altri fiumi, direttamente all'alveo.
La questione del Sagittario, in particolare, riguarda il lago di Scanno che, essendo determinato da una frana vecchissima (millenni?) che ha sbarrato l'alveo, non ha un emissario superficiale; l'acqua che proviene da monte (in particolare dal fiume Tasso) si infiltra dal lago nel sottosuolo e riemerge a Villalago (sorgenti di S. Domenico) per dare origine al Sagittario.
L'effetto è lo stesso anche se, per le piccole portate in gioco e la distanza dalla confluenza con l'Aterno (a monte di Popoli) ,ha minore rilevanza  per la portata del Pescara alla foce. 
Al giorno d’oggi la portata è diminuita rispetto all’antichità a causa dei prelievi di acqua per l’irrigazione, acqua potabile, usi industriali…" Ing. Mario Russo - già direttore Ist. Idrografico PE-.


bacino Aterno-Pescara (da altralaquila_corretta)


Dal libro 
“Pescara, le immagini, la storia”
di Renato Minore e Pasquale De Antonis
Centenario Cassa Risparmio Pe e Loreto A. - 1977




Immagine fornita da Enea Cascella,  un caro amico, il più "grande" barbiere di Pescara, della omonima vecchia famiglia pescarese, che anche in quel di Porto Cervo "fece lo scalpo" più bello a Re, Ministri e personaggi del jet set.


Nel seguito è illustrata la storia del porto dal 1838, data della mappa, quando c’era la sola fortezza, attraversata dal fiume, che sfociava in forma di estuario passando tra il bosco dei "chiappini" a nord (sx nella foto), poi diventato Borgo Marina, e gli acquitrini del lago di Palata a sud (dx nella foto). La costa era riempita da una pineta lussureggiante e c’era la sola foce del fiume e non c’era ancora Pescara riunita ma Castellammare Adriatico (TE), la Vallicella a nord, con il Borgo Marina, la stazione e qualche strada, a nord del fiume. 
A sud del fiume invece c’era Pescara vecchia (CH), oggi Porta Nuova, la Pineta, e la marina dei pescatori, che noi di Borgo Marina ancora oggi chiamiamo "paladini" (dal lago di Palata, probabilmente come visibile nella foto di sopra. Oppure, come abbiamo appreso da una trasmissione di Alberto Angela su Carlo Magno, dal termine "palatini", trasformato nel tempo in paladini, che era dato ai funzionari del palazzo -dal latino palatium- dove risiedevano i funzionari dello Stato da lui fondato nell' VIII secolo d.C. 
I palatini  erano allora ed erano rimasti nel tempo coloro che imponevano le leggi, riscuotevano le tasse, amministravano le città dello Stato, e le fortezze successivamente, come nel caso di Pescara nel XVI secolo. Quindi chiamare paladini gli abitanti e i pescatori di Pescara, sulla sponda sud del fiume, per l'uno o per l'altro motivo, è rimasta un'abitudine per i pescatori di Borgo Marina della sponda nord del fiume, che allora apparteneva a Castellammare Adriatico. Con la creazione della provincia di Pescara, nel 1927, i due abitati si unirono formando la città e il comune che adesso ha il nome di Pescara).


l'ultimo tratto della vallata del fiume Pescara in una mappa d'epoca, presa dalla mostra Real Piazza, curata dal consigliere comunale Licio Di Biase, storico della città 

         
Dal libro Collezione Caripe: “Donne che scaricano il carbon fossile sul tratto di  spiaggia antistante Borgomarino. L’imbarco e lo sbarco delle merci raggiunge un volume notevole anche prima della costruzione del porto-canale avviata nel 1910 ma attuata molto più tardi.
In pochi anni dal 1895 al 1906  si passa da 3,956 tonnellate a 26,778 tonn.”
Sullo sfondo si vede il mercantile all'ancora, da cui veniva scaricata la merce a mezzo di chiatte fino al pontile sulla spiaggia. Poi provvedevano le donne a scaricare il carbone dalle chiatte fino a terra.


"La prima considerazione che balza fuori da queste cifre è quella dello straordinario aumento del traffico che negli ultimi 19 anni è diventato dieci volte maggiore di quanto era nel 1895. Qualunque sia il punto di partenza relativo alle quantità lo sviluppo così rapido è manifestazione sicura della vitalità dello scalo. (...) La sistemazione stradale e ferroviaria è delle più favorevoli e nessun altro punto costiero della regione è così centrale rispetto alle comunicazioni fra le tre provincie e le regioni limitrofe e lontane.(...) Date queste condizioni è facile comprendere la zona di influenza del porto che alcuni hanno fatto ingiustamente coincidere con quella di Ortona. La parte più intensa della zona di influenza è quella che si estende lungo la valle del Pescara e dei suoi affluenti, dei quali la città è lo sbocco naturale più diretto: sono numerosi i centri abitati che per tutti i loro rifornimenti devono ricorrere a Pescara". (...)Gino Albi, L'Abruzzo marittimo, 1915, pag 202-205.


La Storia di Borgo Marina 
e della Marina Sud


IL TEMPO - Giovedì, 6 settembre 1962. Direttore dott. Giuseppe Falcucci. Per gentile regalo ad Antonio Spina del dott. Nevio Taraborrelli, ex analista chimico dell’Ospedaletto (Istituto d’Igiene e Profilassi), cultore dei fatti antichi di Pescara. Scritta da Aurelio Pomante (giornalista, della omonima famiglia di validi pescatori) e rielaborata da Antonio Spina.

I primi pescatori di Castellammare Adriatico non abitavano a Borgo Marina. La zona dell’odierno quartiere marinaro si popolò, infatti, a seguito di un fenomeno migratorio a carattere locale che fece registrare la massima intensità tra il 1900 e il 1910, e che oggi si trova in una fase decisiva della sua involuzione. Nel corso di questa inchiesta abbiamo potuto accertare il fatto che poche famiglie di pescatori o di armatori di Borgo Marina indirizzano I giovani al mestiere che fu degli avi, per cui non è difficile prevedere che, purtroppo, questa situazione farà giungere presto all’ultimo capitolo quel bellissimo, esaltante brano di storia cittadina che chiameremo " l’epopea marinara ".
Ma non è questo il tema dei nostri articoli. Borgo Marina ha dato un contributo decisivo all’espansione di Pescara (anche se adesso Pescara sta a sua volta divorando l’operosa borgata). Ma il nostro " western del mare" si ambienta, almeno agli inizi, in un’altra borgata: Contrada Vallicella. Sfogliando i registri del Comune di Castellammare Adriatico, all’anno 1868, al numero d’ordine 29, leggiamo che Salvatore Pagliaro, figlio di Pasquale, di anni 31, di condizione « marinaro », domiciliato nel comune — appunto - di Castellammare (Contrada Vallicella), si era recato in Municipio per registrare la nascita di un figlio al quale aveva imposto il nome di Pasquale, eccetera, eccetera. Salvatore Pagliaro è il primo abitante della zona che ufficialmente denuncia la condizione di uomo di mare. Successivamente, tal Vincenzo Valori fu Filippo appare anch’esso rubricato quale «marinaro»; e più tardi ancora, Francescopaolo Pennese fu Nicola e tal Giuseppe Supplizi sono indicati con la qualifica di “ marinari”. Tutti questi antenati degli odierni < lupi> della marineria pescarese abitavano in Contrada Vallicella. Possiamo stabilire con molta probabilità che la Contrada Vallicella si estendeva dall’attuale via Venezia fino a via Marsala, e precisamente lungo la parte Nord-Est di tale zona. Viceversa, la Borgo Marina di allora va identificata nelle poche casupole che erano sparse tra il bosco del barone De Riseis e le limacciose rive della Pescara.
D’altra parte, la qualifica di «marinaro» non chiarisce a sufficienza se gli abitanti di Contrada Vallicella fossero pescatori oppure naviganti,anche se noi propendiamo per quest’ultima qualifica, perché nel corso della inchiesta abbiamo potuto stabilire che il conte Ignazio Brina di Pescara, a quell’epoca, era proprietario di due trabiccoli coi quali si dedicava al trasporto del caffè e dello zucchero, collegando l’Abruzzo alla Romagna.


Borgo Marina, parte sud della Vallicella (Minore), Castellamare, Pescara, la vecchia fortezza delimitata dalla linea tratteggiata a dx e dalle abitazioni a sx (piantina ing. Lo Gatto).


Spina e La Galla: le prime famiglie - Verosimilmente, i famosi e leggerissimi “ barchitti” giunsero a popolare la sponda Nord soltanto dopo il 1870. A quell’ epoca Pescara era già una fiorente cittadina di traffici commerciali, ma non possedeva ancora una propria flottiglia da pesca. Il pesce, qui, veniva portato dalle paranze(1) di Ortona e di Silvi. I capitoni invece, giungevano da Comacchio con i trabaccoli che rimorchiavano le «marotte » ricolme.


Collezione Caripe, Il fiume all’interno della fortezza in un disegno dell’epoca.


I natanti attraccavano alla banchina di Forte Bandiera, e li stesso si procedeva alla vendita del prodotto che, caricato sui carretti trainati da cavalli, prendeva la via di Napoli. I primi barchitti si stabilirono lungo la riva Nord della Pescara tra il 1870 e il 1871, insieme con i rispettivi marinai, tutti di S. Benedetto del Tronto. I già scaltriti pescatori marchigiani, avendo constatato che le loro barche entravano facilmente nella foce del fiume, decisero di trasferirsi nella zona con le famiglie, dando così inizio alla formazione di Borgo Marina. Indubbiamente questi pionieri che anelavano ad un domani migliore furono uomini audaci e spregiudicati nell’affrontare rischi di ogni sorta in una zona impervia, malarica e boscosa. Nonostante lo scrupolo con cui abbiamo condotto l’inchiesta, non siamo riusciti a stabilire quale nucleo famigliare mettesse per primo il piede sulla sponda sinistra del fiume .Forse si trattò degli Spina; forse dei La Galla. Può anche darsi che essi vi giungessero in compagnia della famiglia degli Ammirati, soprannominati “Murate”. Sappiamo, comunque, che furono queste le prime famiglie ad abitare la zona di Borgo Marina. Molti marinai dei trabaccoli, residenti in Contrada Vallicella, trovarono in seguito imbarco sui barchitti, completando cosi gli equipaggi giunti da San Benedetto del Tronto e, successivamente, da Silvi. Essi furono sollecitati ad imbarcarsi, essendo pratici della zona, dei venti, delle correnti e dei temporali. Questo episodio stabili, un precedente di tale importanza, che ancor oggi l’ingaggio dei pescatori avviene soltanto su “chiamata» dell’armatore. Per tradizione ,un pescatore non offre mai i propri servigi, anche a costo di soffrire la fame, perché offrendosi menomerebbe il suo prestigio.


Uomini a mollo, barchitti all’asciutto
Questi marinai coraggiosi, giunti dai vari centri delle Marche e da Silvi, Giulianova e Tortoreto, trovarono qui una maggiore possibilità di vendere il prodotto della pesca ma, soprattutto, un attracco che migliorava enormemente le condizioni del loro lavoro. Infatti, nei paesi di origine, il lavoro dei pescatori si svolgeva in condizioni precarie a causa della mancanza di porti. In sostanza, la fatica più penosa dei marinai aveva inizio proprio quando la giornata di pesca era finita e gli scafi tornavano a riva. Allora, bisognava tirare le pesanti barche in secco. L’operazione veniva effettuata a mezzo di argani manovrati a mano.



Paranze a riva


Nei mesi invernali, l’operazione di approdo assumeva spesso aspetti drammatici, coi giovani che dovevano gettarsi a nuoto per facilitare il passaggio dello scafo dal mare alla terraferma. Naturalmente, la notte per riprendere il largo si doveva provvedere alla operazione inversa, e cioè al varo dei natanti, tra sforzi inauditi e memorabili inzuppate. Al contrario, col trasferimento delle barche sulla riva della Pescara, i pescatori ottennero’ l’accesso ad un approdo comodissimo, e le condizioni del loro lavoro ne risentì in maniera benefica.


Seconda metà '800: paranze ormeggiate agli alberi "chiappini" (pioppi bianchi, come specificatoci  dall'agronomo Stefano Girasante) alla riva nord di Borgo Marina  (Immagine prop. di A.Spina)
Un albero di "chiappino" (pioppo bianco) cresciuto spontaneamente dalla base del molo nord di Pescara, all'inizio della canaletta del porto-canale (agg. del 23.11.2015).

Seconda metà '800: paranze al  rientro sul fiume (Immagine prop. A.Spina)
Dalla descrizione del padre Silvio Spina: a dx, ormeggiate, le paranze di  "Pappunette". La paranza con la croce latina e il fiocco è quella di "Massimucce"; quella che segue, scura nella foto ma di colori nero ocra e giallo è de "Lu scrivane"; quella che segue di colore bianco e 4 strisce in alto è quella di "Burzò"  


Già nel 1875 la consistenza della flottiglia locale era di almeno cinque paia di barchitti, che appartenevano alle famiglie La Galla, Spina, Ammirati, Montanaro (bisnonno, proprietari della omonima cartoleria) e al dr. Spitilli, che aveva affidato il comando delle sue imbarcazioni a certo Mastrangelo, detto anche < parò Cazzotto > (è facile intuire il perché). L’epopea marinara della nostra gente era cominciata. Ma come i leggendari pionieri del West, essi incontrarono sulla loro strada, indifferentemente la fortuna o la morte. Giunsero a riva i primi carichi di < pesce nostrano >; ma anche i primi lutti.

Nota su indicazioni della signora Liliana, moglie di Giovanni D’Antonio, detto “chiattone”:dopo l’arrivo della famiglia Spina a Borgo Marina, anche nella Marina Sud si armarono due barchitti (o due paranze ?) da parte delle famiglie D’antonio, detti “li cucciune”, e della famiglia Di Giovanni, loro cugini. Dopo di loro sulla sponda sud del fiume arrivarono le paranze della famiglia Papponetti. Queste barche furono le prime a stabilirsi sulla sponda sud del fiume. Vedi foto sotto)

Immagine  prop. A. Spina

NOTE: (1)le paranze erano scafi di circa venti metri di lunghezza, larghi cinque metri o poco più. Avevano un solo albero sulla mezzaria ed erano costruiti per resistere in mare anche quando infuriava la tempesta. Operarono a S. Benedetto del Tronto, Silvi ed Ortona. I barchitti (o traboccoli) erano scafi leggermente più piccoli, avevano due alberi e operarono a S.Benedetto e Pescara. Le lancette erano scafi più piccoli ancora, che avevano un solo albero sulla mezzaria. Molti scrittori di cose marinare fanno in proposito una gran confusione ed anche D’annunzio nei suoi scritti confuse i tre tipi di battelli (2). Le marotte sono battellini completamente chiusi e muniti di piccole feritoie attraverso le quali passa l’acqua (marina o del fiume). Vi si conservano (affondandoli in zone favorevoli) i capitoni vivi per porli in vendita vari mesi più tardi e perlopiù nel periodo natalizio.




                        
                                                                              un traboccolo (wikipedia)                                                          un modellino di traboccolo (wikipedia)                                           





seconda parte

Nonostante i numerosi problemi di carattere contingente la vita della piccola comunità di Borgo Marina si svolgeva in un clima di relativa serenità, si costruivano casupole, magazzini, il tutto,però, senza alcun ordine edilizio. Cosi la borgata cresceva a vista d’occhio, liberamente ed il nucleo famigliare si allargava a macchia d’olio, secondo le possibilità economiche del capo-famiglia. L’esistenza della comunità si svolgeva entro i limiti della ferrea legge marinara: massimo rispetto per le persone anziane e per la proprietà altrui, attaccamento al lavoro, ammirazione per i marinai più bravi e coraggiosi, cordialità tra le famiglie, spiccato senso di cavalleria verso il sesso debole, spirito d’altruismo in mare, attaccamento al focolare domestico e alla fede religiosa.
In tale clima da «Far West>, i giovinetti crescevano forti e vivaci, inebriandosi delle gesta dei loro padri. I pionieri avevano portato alla nuova patria molto del patrimonio morale e spirituale dei loro paesi di origine, ed anche i difetti naturalmente. Nelle lunghe serate d’inverno, i murè (4) si riunivano nelle abitazioni dei più anziani e questi raccontavano agli adolescenti favolose storie marinare vissute da uomini forti e coraggiosi. E i giovani, letteralmente affascinati, sognavano di poter imitare un giorno i loro avventurosi antenati.
La borgata si sviluppava in un clima leggendario che, se entusiasmava particolarmente i pescatori più giovani, incuteva anche un senso di rispetto e di ammirazione agli abitanti della vecchia Pescara e della nascente Castellammare.
Nelle buie notti invernali, i murè venivano svegliati dalle mamme tra la mezzanotte e l’una e, protetti dalla benedizione materna e da una vecchia giacca che in qualche modo li riparava dalle intemperie, uscivano di casa perdendosi tra le viuzze e la fitta boscaglia. Il compito di quei ragazzi eccezionali era quello di andare a svegliare gli uomini dell’equipaggio, di avvertirli che l’ora della partenza era giunta. Da quei bimbi meravigliosi, che non ebbero mai un giocattolo e mai conobbero la carezza e il conforto paterno, che ignoravano la paura ed anzi ogni notte speravano di incontrare la « Fata Azzurra», uscirono più tardi i famosi “parò” che a 18 anni assumevano il comando dei barchitti e la grave responsabilità di dirigere le sorti dell’azienda.


La sfida tra i parò in un clima di tregenda
Alla < chiamata >, in tutte le case dei marinai si accendeva un lumicino. Le donne si alzavano per preparare i panni pesanti e l’incerata agli uomini che partivano per la pesca. Nel salutarsi, non si scambiavano abbracci o strette di mano. All’atto di varcare la soglia, il marinaio diceva: < I mi ni vai » (io me ne vado); e la moglie (o la madre) rispondeva: “Va chi lu nome di Dio”(va col nome di Dio). Tale saluto era uguale per tutti i pescatori e ancor oggi si tramanda tanto che nessun marinaio pescarese esce mai di casa per recarsi in mare senza aver prima ricevuto, dalla moglie dalla madre, l’augurale « Va chi lu nome di Dio ».
Cosi avvenne anche la notte del 7 maggio 1881, La semplice, rude cerimonia di commiato si ripetè nelle case di tutti i pescatori. Dalla casa di Domenico Spina, soprannominato « lu pape » proprietario di due barchitti, uscirono, quella notte, padre e figlio.Il primo era il parò, il comandante, l’altro il murè, il mozzo. Altri cinque marinai completavano l’equipaggio di parò Domenico. Quando i pescatori giunsero a bordo, s’ avvidero che il tempo non prometteva nulla di buono: verso Greco si era formata quella sottile nuvolaglia che in gergo marinaro si chiama “ la striscia “ e che è foriera di violente tempeste. Parò Domenico decise di attendere il giorno: cosa che, del resto, fecero tutti gli altri capopesca. I marinai si gettarono nelle cuccette, tentando di riprendere il sonno interrotto. Perché non tornarono alle loro case ? Perché ciascuno di essi sapeva che se un solo battello fosse riuscito a partire e a tornare, a sera col suo carico di pesce, l’esser rimasti a terra avrebbe costituito, per tutti i marinai, una ignominia, e per quello atto di imperdonabile codardia sarebbe rimasta bollata, per generazioni un’intera famiglia. Così tutti i parò restarono ai loro posti, saggiando ciascuno le intenzioni dell’altro.
Venne l’alba. Un sole livido color di cera fece scorgere i suoi raggi sotto un banco di nuvole, e sul mare spirava un vento fresco di tramontana. Alle sette e mezzo nessun legno aveva lasciato l’attracco. Parò Domenico decise di andarsi a prendere un caffè da D’Amico, che era sulla piazza di Pescara, di fronte alla  casa di D’Annunzio. Si avviò tra i cespugli che costeggiavano la riva sinistra del fiume, attraversò un ponte e in pochi minuti si trovò nel locale. Era conosciuto da molti pescaresi, parò Domenico, e al bar incontrò degli amici; insieme presero il caffè, poi si sedettero a conversare.

Il ponte di barche sul fiume, che collegava la parte nord e quella sud della Fortezza.
Da Collezione Caripe


Pianta e sezione del ponte di barche, da un documento d'epoca esposto nella mostra "Real Piazza" curata da Licio Di Biase - luglio 2013







mappa della Fortezza di Pescara vecchia, dalla mostra "Real Piazza" di Licio Di Biase 
descrizioni del Circolo Aternino

Erano le otto e trenta quando i barchitti di “Filippomoro” La Galla issarono le vele e mollarono gli ormeggi, poichè il cielo aveva mostrato una schiarita.
Era un gesto di sfida al mare, ma soprattutto una sfida aperta a tutti gli altri parò. Un marinaio della ciurma de “ lu pape” corse ad avvertire parò Domenico.
Senza esitare, semplice, deciso: << Va, mo venghe >>, disse il lupo di mare. A quell’epoca, la fierezza e l’invidia di mestiere dominava le azioni del parò, così che in mare ciascuno cercava di superare l’altro. Alle nove e trenta parò Domenico ordinò ai due scafi che erano al suo comando di mollare gli ormeggi. Sotto la sferza della tramontana i due barchitti escono dalla foce e raggiungono il mare aperto. La barca del parò traccia la rotta, seguita dallo scafo del sottoparò. Vento di prua: si bordeggia.. Ma ecco che altri scafi li seguono, e in breve la foce resta deserta. Nessun marinaio ha avuto l’animo di restare, per non doversi vergognare, a sera, della sua paura.


Un cimitero d’acqua per il parò sconfitto
Verso le undici il vento, che nella mattinata si era leggermente affievolito, riprende a soffiare con una certa gagliardia e con direzione da Greco. Il mare incomincia a brontolare, in quel suo linguaggio iroso e strano che parla all’orecchio dei marinai quel suo linguaggio di tragedie e di lutti.
Verso le tredici, dalla costa appaiono, in lontananza, le vele dei primi barchitti che tentano di riguadagnare la foce. Sotto la spinta del grecale, il mare echeggia il suo spaventoso ululato. Forza cinque! II primo scafo entra nel fiume; tutte le donne si affollano per chiedere notizie degli altri. Ma già altri barchitti appaiono al largo: manovrano coi terzaroli e si apprestano a superare il tratto più difficile per guadagnare l’ingresso della foce. Il mare s’infrange sulle secche con violenza inaudita, creando vortici di spuma; sembra si stia scatenando l’ira di Dio. Ma, uno alla volta, mentre a riva si trepida, i parò affrontano a viso aperto Nettuno e superano la prova, con una perizia da strappare gli applausi. Ma la scura, muta folla della foce non applaude: ansiosa, tace e prega per i due barchitti che sono ancora in mare. Ore quindici: una densa foschia fascia l’orizzonte. Mare forza sei! I vecchi pescatori si portano sull’arenile, scrutano l’orizzonte impenetrabile. Le alte ondate non consentono di scoprire le vele dei barchitti di parò Domenico e del sottoparò. Mare forza sette...
Nessuna manovra è ormai più possibile nei pressi della foce. Le ondate, frangendosi sulle secche, chiudono l’imboccatura con una barriera d’acqua quasi insormontabile. Si potrebbe, in queste condizioni, tentare il tutto per tutto, gettare gli scafi contro la spiaggia. Questa manovra, che oggi ricorda l’atterraggio disperato degli aerei che hanno il carrello guasto, in alcuni casi può salvare la vita all’equipaggio: ma conduce anche, inevitabilmente, alla perdita dello scafo, che viene squassato dai marosi. D’altra parte, parò Domenico è troppo orgoglioso per non stare alle regole della “ sfida”; e la folla lo sa.
Ma ecco che sulla foce appare la sagoma di una barca.. Manovra con la sola vela di poppa e punta al centro del fiume. Attimi di tensione, a riva; di manovre frenetiche e di sforzi spasmodici a bordo. II tentativo riesce. Lo scafo supera la barriera della morte: è salvo. Così il barchitto del sottoparò attracca. In mare resta ancora parò Domenico, l’uomo che ha accettato la sfida.
La situazione è grave, perché la bufera aumenta di intensità di attimo in attimo. Quasi presentendo la tragedia, il lupo di mare prende gli estremi provvedimenti, e lega i più giovani al pennone. Egli è alla barra del timone insieme con un altro marinaio; i più abili sono ai rispettivi posti di manovra. Mare forza otto. Lo scafo si presenta di fronte alla foce; manovra anch’esso con la sola vela di poppa. Più scaraventato che portato dal vento e dalle correnti, tenta di superare la barriera delle onde che si infrangono muggendo sulle secche. Non ci riesce. Lo scafo si pone di trescia, si ingavona, presenta il fianco alle onde, imbarca acqua. Una compagnia (5) di mare lo inabissa...
Le donne, inginocchiate sulla sabbia bagnata, pregano silenziosamente. Gli uomini corrono di là del fiume, verso Francavilla, nella speranza che qualcuno possa essere scampato e possa aver raggiunto la riva. Ma nessuno si salva.
Periscono sette marinai, tra i quali padre, figlio e due fratelli. Nasce la leggenda dei «sette marinai”: una leggenda degna dell’epopea del West.
Borgo Marina paga il suo primo tributo alla grande Pescara.

E’ l’otto maggio del 1881.   (N.d.R. 6)



Note: (4) I “murè” erano i ragazzi addetti ai lavori più umili di bordo. Erano trattati malissimo, perché così voleva la tradizionale dura legge del mare. Non era loro consentito di rispondere ai richiami dell’equipaggio. La loro età variava dagli otto ai dodici anni. Tra i servizi loro affidati vi era quello di svegliare la ciurma.(5) La compagnia di mare era un’onda anomala fatta di tre/quattro onde sovrapposte. Terribilmente grande e frangente.

NdR 6:  dalle ricerche da noi fatte successivamente presso la Capitaneria di Porto di Ancona (e poi al Circondario di Ortona, poi l'Ufficio di Porto di Pescara, poi l'Ufficiale di Stato Civile e Sindaco dell'epoca Leopoldo Muzii, socialista) dove era iscritto, risulta naufragato il 10 maggio 1882: il traboccolo o bragozzo naufragato era chiamato “Omero” con 8 uomini di equipaggio.
- Il giorno 10 maggio 1882 fu descritto come giorno di forte burrasca (di probabile provenienza da nord est visto che i corpi furono trovati tutti verso Francavilla al Mare).
- L'equipaggio dell'”Omero” era così composto:
1) Spina Domenico fu Pasquale, iscritto al n. 4686 della gente di mare, padrone al comando (cioè armatore e comandante);
2) Sciarra Pasquale fu Domenico, figlio di Sciarra Domenico e Bratticella Maria, nato nel 1821 a San Benedetto del Tronto, domiciliato a San Benedetto del Tronto (AP), iscritto al n. 3568 della gente di mare = marinaio;
3) Mazza Giuseppe , figlio di Mazza Benedetto e di Balloni Rosa, nato nel 1825 a S. Benedetto del Tronto, domiciliato a Silvi, iscritto al n. 5654 della gente di mare = marinaio;
4) De Angelis Giuseppe, figlio di de Angelis Filippo e di tale Fioralba …..., nato nel 1836 a Silvi , domiciliato a Silvi, iscritto al n. 5668 della gente di mare = marinaio;
5) D'Incecco Domenico del fu D'Incecco Carmine e di Tacconelli Serafina. Costui non morì subito ma solo in data 20 maggio 1882 alle ore 16,00 (probabilmente a seguito di polmonite e complicazioni varie). D'Incecco nacque a Castellamare Adriatico nel 1852, domiciliato a Castellamare Adriatico, iscritto al n. 3553 della gente di mare = marinaio;
6) Di Tommaso Gabriele, figlio di Di Tommaso Sabatino e di Traini Rosa, nato nel 1852 a Castellamare Adriatico, domiciliato a Castellamare, iscritto al n. 2967 della gente di mare = marinaio;
7) Spina Nicola, figlio di Spina Domenico e di Travaglini Emidia, (quindi altro figlio del nostro e fratello di Pasquale, detto "lu scrivane"), nato a Castellamare Adriatico nel 1867, domiciliato a Castellamare Adriatico al n. 3006 della gente di mare = mozzo;
8) D'Incecco Gaetano, anche costui morì dopo, precisamente il 27 maggio 1882 alle ore 11,30 in Contrada Marina di Pescara. Era figlio di D'Incecco Francesco e Pennese Elisabetta, nacque nel 1871 a Castellamare Adriatico, domiciliato a Castellamare Adriatico, iscritto al n..........della gente di mare = mozzo.

Il trabaccolo “Omero” era stato costruito nel cantiere di G. B. Venieri di Ortona e varato nel 1873. 
Era lungo 12,47 metri; largo 3,70 metri; alto 1,35 metri; stazzava 15 tonnellate.
La barca del sottoparò, sempre della famiglia Spina, era il bragozzo “S. Francesco” , varato in Ortona nel 1862. 
Era lungo 11,27 metri; largo 3,27 metri; alto 1,27 metri; stazzava 12 tonnellate.



 terza parte


La fine di parò Domenico e del suo equipaggio lasciò una sensazione di sbigottimento e di dolore nell’animo dei marinai. Il lupo di mare venne trascinato dalle correnti sull’arenile di Francavilla. I primi ad accorrere trovarono parò Domenico e suo figlio strettamente abbracciati sulla spiaggia, e ancora in vita. Malgrado i provvedimenti e le cure subito adottati, i due coraggiosi pescatori esalarono l’ultimo respiro, e l’arenile bagnato e flagellato dai marosi fu il loro letto di morte.
Tutti gli abitanti della borgata si recarono allora a Francavilla per rendere le estreme onoranze alle due vittime del mare, e i famigliari decisero di seppellirne le spoglie nel cimitero di Francavilla. Oltre agli abitanti della borgata, parteciparono ai funerali numerosi pescaresi amici di parò Domenico. Degli altri uomini dell’ equipaggio naufragato non si seppe più nulla, ma tutte le donne dei marinai di Borgo Marina vestirono per essi l’abito a lutto e gli uomini misero al collo una striscia di panno nero, a mo’di cravatta; la campana rintocca per tutti.
La tragedia fiaccò gli entusiasmi dei primi anni e fece rallentare il ritmo produttivo di Borgo Marina, mentre un dubbio prese a serpeggiare nell’animo dei pescatori, tanto che essi si chiedevano, ormai, sino a che punto potessero fidarsi ancora della Foce.
C’era pericolo che quello stesso rifugio naturale per il quale essi avevano abbandonato le loro case e le loro marine, si trasformasse in una trappola mortale ? In questa atmosfera di incertezza, si incrociavano le lunghe ed appassionate discussioni dei pescatori più anziani. Alcuni espressero la opinione che si dovesse abbandonare la borgata; altri l’abbandonarono, ed altri ancora si riproposero di farlo. Ma,come spesso succede in casi del genere, le donne tennero duro e convinsero i loro uomini a restare. Borgo Marina e la stessa Pescara devono della riconoscenza a queste donne.
Intanto, preso dalle stesse angustie dei marinai, l’armatore Montanaro volle vendere le sue barche. Egli non era un autentico pescatore, e alle prime difficoltà decise di abbandonare il rischio della pesca e di tornare ai più tranquilli commerci
 Le due barche di Montanaro furono acquistate, per complessive duemila lire da un altro commerciante. Il signor Raimondo Tommolini, padre del caro amico Romeo, che come vedremo, diede il nome al primo barchitto tutto pescarese. Le due barche di Montanaro furono acquistate, per complessive duemila lire da un altro commerciante.

                                                                                                                                             


(foto "Il Tempo")

Dobbiamo a Romeo Tommolini se siamo riusciti a documentarci sui particolari che riguardano le imprese di Fichisicchi e la costruzione di due barche, in un certo senso, storiche. Raimondo Tommolini, chiamato « Raimundo », era un uomo leale e generoso. La sua passione per il mare lo portò ad interessarsi a certi problemi e a fraternizzare coi pescatori che apprezzavano la sua sensibilità.  Raimundo affidò il comando dei suoi legni ad un parò di alto valore, soprannominato “ Fichisecchi” per l’Anagrafe: Antonio Candeloro. Fichisicchi era l’unico parò nato a Castellammare Adriatico. In precedenza egli aveva comandato gli scafi di Filippomoro. La famiglia Candeloro coltivava la terra da molte generazioni. Il padre di Fichisicchi possedeva un appezzamento che confinava con la proprietà del barone De Riseis.
Appassionato anch’egli del mare il vecchio Candeloro si dedicò alla piccola pesca, senza però trascurare la sua proprietà terriera. II frutteto dei Candeloro, detto anche « frutteto dei Ferlesi », era migliore di quello dello stesso barone De Riseis. Il figlio Antonio, di carattere avventuroso ed indipendente, non amava la terra e preferì imbarcarsi sui barchitti. Il suo coraggio, la sua intelligenza e la sua bravura lo avevano messo in luce, ed il vecchio Filippomoro lo aveva assunto alle sue dipendenze in qualità di parò. Quando Raimundo acquistò gli scafi di Montanaro, si assicurò i servigi di Fichisicchi, al quale affidò entrambi i barchitti. Gli scafi, per la verità, erano vecchi, tanto che il Montanaro, prima di venderli, li aveva tirati a secco, deciso ad abbandonarli. Fichisicchi fu coraggioso ed ambizioso. In mare cercò di gareggiare in bravura con gli altri parò, ma gli capitò spesso di dover soccombere di fronte alle abbondanti pescate dei rivali: i suoi barchitti erano malandati e non potevano reggere il confronto. Allora egli cercò di convincere Raimundo a ordinare la costruzione di due barchitti nuovi. Sulle prime, Raimondo Tommolini tentennò, ma quando decise per il « si », fece le cose in grande. Chiamò il più famoso maestro d’ascia di Ortona, certo Benigno, e gli affidò l’incarico della costruzione delle due barche.
Benigno si trasferì a Pescara con un gruppo di calafati e in breve tempo, mise in cantiere i due scafi. Il cantiere sorgeva nella zona in cui attualmente si trova il cinema « Massimo ».


Scendono in mare Giulietta e Romeo
Per accelerarne la costruzione vennero impiegati alcuni pezzi dei vecchi barchitti che, nel frattempo, erano stati demoliti. Furono assunti i segatori per aiutare i calafati e si lavorò dall’alba al tramonto, sotto la direziono tecnica di Benigno, mentre Raimondo Tommolini e parò Fichisicchi controllavano che tutto filasse per il verso giusto. Le due costruzioni prendevano forma a vista d’occhio seguite con curiosità ed interesse da tutti gli abitanti di Pescara che. giorno per giorno, andavano appassionandosi ai problemi della pesca, portati dolorosamente alla ribalta dalla tragedia dei “sette marinai”.
Intanto il mercato del pesce, che prima si svolgeva sulla banchina del Forte Bandiera, era stato trasferito in un vasto locale di via delle Caserme. Verso sera, quando i barchitti rientravano, i murè, con le carrette stracariche, trasportavano le coffe ricolme di pesce, che « li vinniture » (i venditori) mettevano all’asta. Tra i più noti venditori del tempo furono Massacese, La Selva e Pasquale Spina, fratello, quest’ ultimo, dello scomparso parò Giuseppe, e noto col nomignolo de « lu scrivane » (perché teneva i conti a molti marinai di Borgo Marina, alcuni dei quali aiutava anche finanziariamente. Fu anche uno dei primi azionisti del Banco di Roma, ndr).


Pasquale Spina "lu scrivane"

La vendita del pesce fu sempre uno spettacolo vivo, interessante, attraente. Sembra ancor oggi di udire il lamentoso scandire de “lu Scrivane”: «... quattri e sessante, quattri e cinquante, quattri e quarante... », e la voce decisa del « pesciarolo » interrompeva l’asta acquistando la cassa di pesce, mentre i vecchi pescatori confabulavano, commentando la giornata trascorsa al largo. Per i non iniziati, erano, quelli, discorsi strani e incomprensibili. «Aveme salate cinquanta passi alla bona, mezz’a Calivano; aveme salbate mezz’a la masserie de li fiate... ». In sostanza, più istinto che scienza, più esperienza che preparazione nel mestiere di parò, a quei tempi.







E giunse, infine, la grande giornata di Raimundo e di Fichisicchi. La prima domenica di ottobre del 1883 i due nuovi barchitti furono pronti per il varo. Il costo degli scafi raggiunse le 24 mila lire, senza considerare le spese necessarie per attrezzarli. Tutta Pescara era presente alla cerimonia del varo. Raimundo aveva due figli, che aveva battezzato con i nomi di Giulietta e Romeo. Egli decise, così di imporre anche ai barchitti quegli stessi, romantici nomi. Romeo Tommolini, nostro stimato concittadino e vecchio pubblicista, divenne allora, in un certo senso, il giovanissimo padrino della prima barca da pesca costruita a Pescara.


varo delle barche Giulietta e Romeo

L’abate Terno, della parrocchia di S. Cetteo, impartì la benedizione. Come vuole la tradizione,
il costruttore pronunziò un discorso. Benigno, vestito a festa, scandì le fatidiche, rituali parole:” Che S. Nicola da Bari ti guidi il timone… e che il più forte colpo di mare (che dovrai subire) possa essere questo…”. In tale preciso istante, mastro Minuccio Cannella ruppe sulla prora del barchitto una pregiata bottiglia di vino. Poi gli scafi, uno dietro l’altro, scivolarono in acqua, mentre la banda di Spoltore intonava la “Marcia Reale”.







quarta parte


Di pari passo con l’attività marinara, nel piccolo borgo si affermava la vita sociale e naturalmente, insorgeva la lotta politica. La battaglia elettorale del 1895 per la scelta del deputato nella circoscrizione di Città S. Angelo, di cui faceva parte l’attuale Pescara centrale, ha lasciato, tra i pescatori e tra gli abitanti di Castellammare, un tragico ricordo. Ancora oggi i vecchi della borgata polemizzano su quelle famose giornate che seguirono alla sconfitta di don Leopoldo Muzii. In tale occasione, don Giulio Muzii, uomo di notevole esperienza e di rara intelligenza commise grossi errori di calcolo circa l’esito della lotta politica nella quale era impegnato il fratello. Molti elementi non vennero valutati con l’attenzione che la situazione richiedeva in quel momento e don Leopoldo fu sconfitto, sia pure per poche diecine di suffragi.
Furono i pescatori, con i loro voti compatti, a decidere la contesa in favore del barone De Riseis, avversario di don Leopoldo Muzii.

Don Leopoldo Muzii, 
socialista, il Sindaco che attuò il primo Piano Regolatore Cittadino. 

Il fenomeno, del resto, si ripeté anche nelle competizioni successive. Come accadde che don Giulio, il quale dirigeva la campagna elettorale del fratello non ottenne l’appoggio dei pescatori? Don Leopoldo era ben noto tra i pescatori, perché fu lui che nel 1884 trasferì il Municipio dai colli Madonna al rione Muzii, facilitando cosi agli abitanti di Borgo Marina i contatti con gli uffici pubblici più importanti. Tuttavia egli sottovalutò l’apporto determinante che i pescatori avrebbero potuto fornire coi loro voti. Se don Giulio si fosse meglio informato, l’amico Enrico lasonni lo avrebbe messo al corrente dello sviluppo di Borgo Marina dal 1884, epoca in cui a reggere le sorti dell’amministrazione del Comune di Castellammare fu eletto il dinamico don Leopoldo, al 1895, anno delle nuove elezioni e dei fatti che narriamo. Sarebbe il caso di dire che molta acqua era scivolata ormai sotto il nuovo ponte sulla Pescara, che l’ing. Giustino De Leonardis, di Bucchianico, aveva realizzato nel 1893, in sostituzione di quello vecchio di “barche”.



(collezione  Banca Caripe)


I pescatori oltretutto si erano notevolmente moltiplicati. I candidati, comunque, erano tre: il barone De Riseis (appoggiato dal pescatori), don Leopoldo Muzii, sostenuto dai fratelli Guarnieri e Giovanni Bovio, repubblicano, propagandato dai Fusilli. La candidatura di Bovio assunse in partenza il valore di una semplice, simbolica manifestazione di stima, giacché i repubblicani non ignoravano che il loro candidato non avrebbe avuto molte probabilità di cogliere un’affermazione: infatti, Bovio ottenne soltanto 350 voti.
La battaglia, invece, si accese, decisa e senza esclusione di colpi, tra la fazione di Leopoldo Muzii e quella del barone De Riseis. I Guarnieri avevano molta influenza sulle popolazioni dell’interno, specialmente ai colli. Essi appartenevano ad una folta famiglia di commercianti di cavalli e praticamente erano i proprietari di tutto il terreno sul quale oggi si snoda via Venezia. I pescatori, invece, inseguivano — nella loro opera a favore di De Riseis — il miraggio della costruzione del porto-canale, che essi per primi proposero con passione come un’ esigenza inderogabile della nostra città. In realtà, il barone non fece poi gran che in favore del porto.
Le due fazioni si scontrarono spesso, specie in occasione delle affissioni dei manifesti elettorali: ma il tutto si ridusse a semplici affermazioni verbali. I Guarnieri erano amici dei pescatori e per nessuna ragione intendevano provocare seri incidenti. Purtroppo, però, il giorno che precedette le elezioni, tra i pescatori si sparse una terribile notizia: un uomo era stato ucciso. Anche se in seguito si potè accertare che la vittima era certo Ciriaco, detto Biascione, mezzadro e sostenitore di De Riseis, in un primo tempo si parlò della morte di un pescatore, e il fatto gettò allarme e indignazione nel piccolo, familiare ambiente di Borgo Marina. II morto giaceva in una cunetta al margini di un cespuglio, nel pressi della zona in cui sorge attualmente la sede centrale delle Poste. Alcuni pescatori caricarono su di un carretto il cadavere e lo trasportarono a Borgo Marina. Dopo aver fatto il giro di tutte le viuzze, il macabro corteo, seguito dai murè, si portò sotto il balcone del barone De Riseis. Nel frattempo si era fatto buio. Il marinaio che trascinava il carretto, certo Vianale, soprannominato “Cocciabianca”, si mise a gridare richiamando cosi l’attenzione del barone, il quale, com’era a tutti noto, dopo il vespro non apriva più le porte di casa a chicchessia. Tra il nobile ed il pescatore si svolse uno strano colloquio, che riportiamo integralmente, basandoci sul racconto di una vecchia testimone oculare: Elisa Agostinone. Cocciabianca gridò: « Barò,qua ci sta nu morte »; al che il barone, che continuava a tener chiusa la vetrata: « Domani si fa giorno! ». Essendo chiaro che il nobil’uomo non aveva compreso nulla e non si rendeva conto della situazione, Cocciabianca insistè: « Gnore barò: Ciriaco è morto! » E il barone: “Si. domani si fa giorno”. A questo punto, tragedia e farsa si fusero, perché il lupo di mare, stanco della faccenda, lasciò la stanga del carretto, ed il corpo esanime del povero Ciriaco rotolò sull’erba, andando a fermarsi proprio sotto il balcone della villa De Riseis, dove rimase.





Naturalmente, il giorno successivo arrivarono i carabinieri con le autorità inquirenti e il cadavere fu rimosso. Nell’occasione, vennero interrogate numerose persone, tra le quali un certo Gaetano soprannominato « Matamà ». il quale dichiarò di aver visto i fratelli Domenico ed Ottavio Guarnieri discutere animatamente con l’ucciso. 
Le autorità ne ebbero abbastanza per ordinare l’arresto dei due fratelli.
Le elezioni si conclusero con la vittoria del barone De Riseis, anche se soltanto poche decine di voti divisero il nobile pescarese da don Leopoldo Muzii. Il barone, dopo questo successo, se ne tornò a Roma e i pescatori ripresero la via del mare. La sconfitta di don Leopoldo lasciò un senso di amarezza nell’animo del fratello Giulio, che, alcuni giorni dopo, incontrando un pescatore, gli disse: « Avete votato per De Riseis e lo avete fatto vincere. Che cosa ha fatto il barone per voi? Se avesse voluto piantare un albero di fichi, almeno potreste coglierne qualcuno quando, di notte, andate a mare; e cosi vi ricordereste di lui. Invece non ha fatto nemmeno questo ». Don Giulio, in sostanza, aveva ragione. Ma la cosa interessa soprattutto sotto questo profilo: i pescatori erano ormai diventati un gruppo sociale compatto e determinante nella vita politica di Pescara.
Intanto. I due fratelli Guarnieri si trovavano nel carcere di Città Sant’Angelo, sotto l’accusa di omicidio. Tutti i familiari, convinti della loro innocenza, fecero blocco e ottennero il patrocinio dei migliori penalisti del tempo: il collegio di difesa fu diretto dall’avv. Chiarizia. Il primo giudizio si svolse presto il Tribunale di Teramo. Gli avvocati della difesa presentarono numerose eccezioni e la causa fu rinviata ed assegnata prima alla Corte dell’Aquila, poi per legittima suspicione a quella di Ancona, donde tornò di nuovo davanti ai giudici aquilani, che emisero la sentenza. Ottavio Guarnieri fu assolto e scarcerato, mentre Domenico, detto “la Montagnola”, fu condannato ad otto anni di pena. Nel corso del giudizio, i due fratelli protestarono la loro innocenza, ma il collegio giudicante tenne scarso conto delle loro dichiarazioni. Così, la pesante porta del carcere si chiuse alle spalle di Domenico Guarnieri. A titolo di cronaca, diremo che in quell’occasione la famiglia Guarnieri spese la rilevante somma di 120 mila lire: il prezzo di 10 barchitti nuovi. Oggi, sebbene ormai la cosa possa acquistare valore unicamente sotto un profilo umano e morale, siamo in grado di affermare che Domenico Guarnieri era innocente. Infatti nel corso di questa inchiesta abbiamo potuto accertare che il delitto venne compiuto da un dipendente del Comune, del quale ci sembra giusto tacere il nome che, prima di morire, confessò la sua colpa all’arciprete don Giacomo D’Alessandro, il quale gli accordò il perdono anche a nome delle due vittime: l’assassinato e il condannato innocente.








quinta parte


Nel corso dell’inchiesta, molte volte abbiamo fatto uso del nome « murè ». Abbiamo anche chiarito che « lu murè » era il ragazzo di bordo, il mozzo. Ignoriamo la derivazione etimologica della parola; sappiamo solo che con tale vocabolo i pescatori di San Benedetto del Tronto e di Silvi chiamavano i ragazzi di bordo, e che quando gli stessi pescatori si trasferirono a Castellammare, si continuò a farne uso, senza tuttavia, che gli stessi marinai conoscessero l’esatta derivazione del nome « murè ». ;
Nostro compito è quello di presentare oggi l’autentico « murè » di cinquant’anni fa.
Oggi non ci si serve più dei mure; essi se ne sono andati, silenziosamente, dalla vita della marineria pescarese così come vi erano entrati nel lontano 1870. Con grande commozione abbiamo però appreso che a bordo di un piccolissimo scafo pescarese è oggi imbarcato un murè. E’ il più piccolo di una ciurma composta da tre fratelli proprietari di un natante. La sua età non dovrebbe superare gli undici anni. L’abbiamo scorto sulla banchina mentre sbrigava le sue faccende, e ci siamo ripromessi di « intervistarlo », pur temendo che nel momento in cui gli rivolgeremo la parola, il ragazzo possa scomparire come un’ombra, lasciandoci soli coi nostri ricordi.



(foto Il Tempo)
     Aurelio Pomante con l’ultimo murè


Sembra impossibile infatti che nel 1962 possa esistere ancora un autentico murè. Gli ultimi scomparvero in un lontano giorno del 1909, davanti alla foce della Pescara. Si chiamavano Nicola Pavoncelli, Antonio Candeloro e Amedeo Pennese, e fra tutti e tré avevano 27 anni ( nove anni ciascuno). Scomparvero come tre grandi campioni d’una razza eccellente, per protestare contro un destino implacabile ed assurdo, decisero di dileguarsi nella profondità del mare, da dove probabilmente erano venuti. Perché i mure non erano come gli altri fanciulli. E’ impossibile pensare che bimbi di sette, otto, nove anni potessero sopportare l’esistenza riservata a quei tempi ai « ragazzi di bordo ».


Per salvare il compagno, per morire con lui.
I murè furono gli spartani della comunità dei pescatori. Bambini eterei, ombre materializzate... E come ombre si muovevano, nelle notti profonde, tra i cespugli colmi di « paura », per !e viuzze polverose e deserte. Silenziosamente si spostavano di casa in casa. scandendo, davanti alle porte chiuse, l’allucinante cantilena: « Alzatevi, si va in mare! ». E poi riprendevano,quieti, la strada del ritorno,verso le barche in procinto di partire. I piedini gonfi che non avevano mai calzato le scarpe, cosparsi di ferite, erano un tormento; eppure non era consentito loro di lamentarsi. La grande forza d’animo derivava dalla consapevolezza precoce della loro situazione e dalla speranza di diventare domani buoni marinai. Dimenticavano il tepore di un tettuccio, ne lo desideravano, per timore di apparire deboli perfino di fronte a sé stessi. Il loro giaciglio era la murata umida del barchitto; il guanciale, la coda bagnata d’una rete; il loro sonno un’attesa continua. Accendevano il fuoco sottocoperta, in una densa nuvola di fumo; ma non tossivano: temevano i rimproveri dei marinai, la loro derisione. Poi, quando il fuoco era acceso, dovevano allontanarsi per dar modo ai pescatori di scaldarsi. A loro non era consentito di restare accanto alla bragia. Venivano picchiati per un nonnulla e in modo bestiale. Molte volte restavano doloranti sotto la « gioia » di prua, ma non emettevano un lamento, tanto la cosa appariva, ai loro occhi, normale. Nessuno li difendeva anche dal punto di vista affettivo, un bambino della generazione odierna mal si adatterebbe all’esistenza di murè. Era legge del mare che un murè non potesse trovare imbarco sullo stesso barchitto sul quale navigava il padre. Raramente, quando tornavano a terra, le madri li confortavano facendo trovare loro un po’ d’acqua calda e qualche benda per fasciare i piedi tumefatti e bruciati dalla salsedine. Le cure delle donne erano tutte per i pescatori, quelli autentici, anziani: i piccoli dovevano soltanto abituarsi, alla loro età. Bimbi dalla vita assurda, amati e maltrattati allo stesso tempo, vissero per mezzo secolo lasciando un ricordo epico nel cuore di tutti. Poi, scomparvero improvvisamente, un giorno qualsiasi dell’anno 1909. Una barca stava rientrando nella foce. Spirava un vento non forte; ma il timoniere sbaglia in pieno la manovra, e la barca si inclinò sottovento. Il mure Nicola Pavoncelli cadde in acqua. Aveva otto anni. Ma quel giorno, su quella stessa barca, per un caso inesplicabile quanto fatale, si trovava un altro murè della sua stessa età: Antonio Candeloro. Accortosi che il compagno era finito in acqua, senza porre di mezzo un sol attimo, Antonio si gettò a mare. Il dramma si svolse nel giro di pochi secondi, tanto che i marinai non ebbero il tempo di rendersi conto dell’accaduto. I due ragazzi furono visti per l’ultima volta abbracciati strettamente, travolti dalle correnti dell’imboccatura. Nessuno riuscì ad organizzare l’impossibile salvataggio, e i due scomparvero per sempre.


Forse in quel murè ricordava suo figlio
Qualche mese dopo, in mare, mentre una barca compiva la manovra del « baratto », un altro murè, l’ultimo di Pescara, Amedeo Pennese, di nove anni, cadde in acqua. Questa volta si gettò in suo aiuto il parò dell’imbarcazione: Andrea Candeloro, gran nuotatore e padre di Antonio, il murè scomparso alla foce della Pescara. Come suo figlio egli tentò di salvare il bimbo caduto; come suo figlio perì. Con poche bracciate aveva già raggiunto il murè e lo teneva sollevato perché respirasse liberamente, allorché il timoniere sbagliò manovra nell’accostare. Allora lo scafo investì in pieno il parò e il murè, passando loro sopra. Scomparvero insieme, stretti l’uno all’altro, il primo personaggio della ciurma e l’ultimo: parò e murè.
Forse parò Andrea cedette semplicemente all’impulso naturale del buon lupo di mare; forse in quel suo piccolo murè in pericolo egli scorse suo figlio Antonio, l’altro generosissimo murè perito nel tentativo di salvare il compagno.
Comunque, mai generosità fu peggio ripagata di quella volta. Così scomparve anche l’ultimo murè.
Alcuni giorni fa, quando ci dissero che su una piccola barca è imbarcato un murè, abbiamo sentito un tonfo al cuore, ed abbiamo avvertito il desiderio di parlargli: sommessamente, possibilmente di sera, in una di quelle viuzze che ancora delimitano le poche case rimaste nella borgata... Ma poi siamo stati colti da un dubbio.
Abbiamo paventato che il ragazzo, sotto l’incalzare delle nostre ansiose domande, avesse potuto dileguarsi: come facevano i murè, quelli veri, che sapevano soffrire e che non stavano mai di mezzo ad ingombrare la strada ai marinai. Abbiamo temuto che dal cielo una voce sommessa e triste, rispondendo alle nostre domande. pronunziasse il nome d’uno di quei ragazzi scomparsi nel lontano 1909, confermandoci iI suo ritorno alla vecchia borgata, al “covo” della marineria destinato ormai, inesorabilmente, a scomparire.

             






sesta parte


Non è possibile presentare questa puntata rispettando la cronologia dei fatti. Dobbiamo narrare un episodio che si verificò nel marzo del 1921. L’ultimo avvenimento riferito nella puntata precedente accadde nel 1909. Abbiamo dunque saltato dodici anni. Successivamente riprenderemo a farci guidare dal filo logico delle date; ma oggi sentiamo il dovere di illustrare un’altra, leggendaria figura di spicco nella storia della marineria pescarese: la donna del pescatore.
Creature ammirevoli, sapevano soffrire come i loro uomini. Il loro spirito di sacrificio era il tessuto connettivo dell’unità famigliare. Esse rappresentavano, di per sé, la “casa”, la “ famiglia”, agli occhi, nella mente e nel cuore del loro uomini sparsi per il mare. Le generazioni si sono succedute attraverso un secolo di vita, ma nella piccola borgata marinara non si è mai verificato un solo caso di separazione dei coniugi; mai nessuno potrà narrare il tradimento della sposa di un pescatore. La loro integrità morale, la loro dignità erano l’unico bene che le mamme potevano donare ai figli sin dalla nascita e in seguito.
Ci sono stati narrati alcuni episodi che hanno del sublime. Donne che hanno atteso per cinquant’anni, ogni sera, il ritorno del figlio o del marito scomparso tra i flutti, con una serenità biblica, senza che mai sui loro occhi spuntasse una disperata lacrima. Per sedici anni Giovina Pavoncelli e Gemma Candeloro attesero invano il ritorno dei loro figli inghiottiti dal mare. Mezzo secolo durò l’attesa silenziosa di Olimpia Pennese, che anche in punto di morte chiese notizie del suo ragazzo naufragato. Tanta resistenza di queste salde creature fu una attesa che ha dell’irreale: l’attesa del ritorno dei barchitti coi loro uomini, l’attesa più muta ma non meno tenace di ritorni impossibili.
Ma, tra tanti, vogliamo narrare un dramma del quale fummo diretti testimoni. A quei tempi ero un giovinetto,avevo dodici anni: ma il ricordo di quei fatti è talmente vivo in me da farmi provare - nel rievocarli — la medesima angoscia provata in quel lontano giorno.
Nel marzo del 1921, alcune barche pescarono un certo quantitativo di alici. Purtroppo, la fortuna non aiutò certe altre barche, e le loro reti restarono vuote. Tra le barche meno fortunate ci furono quelle di Benedetto Mazza, comandate dal figlio del proprietario, Carmine. Il sottoparò si chiamava Cetteo ed aveva perduto un figlio e un fratello in mare; quel giorno sarebbe giunto il suo turno.
La sera, quando le barche tornarono, i pescatori meno fortunati appresero della buona pesca dei colleghi. L’emulazione e la rivalità di mestiere furono le molle della tragedia, ancora una volta come già nel passato. Carmine, appresa la notizia, ordinò all’equipaggio di tornare a bordo non appena consumata la cena. Così, nelle prime ore della sera, le due lancette ripresero il mare alla ricerca del branco di pesce azzurro, puntando verso tramontana ( in dialetto: “pi l’in sù” = per l’in su, nord, tramontana). Agli altri’ parò era stata la fortuna a porre dinanzi una favolosa pescata; parò Carmine andava a cercarsela da sé, la sua fortuna, rincorrendo il banco di pesce. Il tempo non prometteva nulla di buono. Durante la notte il mare si mantenne relativamente calmo, ma allo spuntare dell’alba, enormi nubi si profilarono all’orizzonte ed un vento fresco di tramontana cominciò a soffiare risolutamente. Verso mezzogiorno il vento girò più da greco ed allora il mare iniziò la sinistra sarabanda temuta da tutti i pescatori. Le barche di Benedetto Mazza erano modeste, non superavano i nove metri, ma gli uomini che componevano l’equipaggio erano gli stessi che trent’anni prima avevano navigato coi barchitti. In modo particolare, il capopesca Carmine, detto « lu cioppe » era un parò d’altissimo valore, appartenente ad una famiglia che per generazioni vantò una bella tradizione marinara.
Quando il parò vide che la situazione si aggravava, diede l’ordine di tornare al porto. Lungo il tragitto, però, il mare aumentò la sua potenza scatenata, e davanti alla foce si formò la solita barriera mortale. La barca del parò affrontò per prima il pericolo, spezzò la vela e gettò la «spera» da poppa. La manovra riuscì in pieno e lo scafo superò il punto cruciale senza riportar danni. Il sottoparò, che pure era un marinaio abilissimo, non si accorse che parò Carmino aveva gettato la « spera », l’ancora a mezz’acqua, a poppa, in funzione di freno. Così, egli affrontò l’imboccatura senza il «freno». Al primo urto con i frangenti, lo scafo si capovolse. Il dramma fu seguito dal molo e da terra da tutti i pescatori che subito cercarono di organizzare un opportuno soccorso. Arrivarono le spose e le madri dei quattro sfortunati marinai…. La spaventosa agonia cominciò… Due dei quattro pescatori, e precisamente Gabriele Zirillo e Francesco Giorgetti, inesperti del nuoto, tentarono di aggrapparsi allo scafo rovesciato. Vi riuscirono. Restarono calmi in attesa dei soccorsi. Numerosi giovani pescatori si gettarono in acqua portando una fune trattenuta dai pescatori rimasti a riva. Dopo una epica lotta, i due naufraghi, aggrappati alla chiglia capovolta furono tratti a riva. Gli altri due, Cetteo Candeloro e Romeo Vianale, erano degli autentici fuoriclasse del nuoto. Gettatisi in mare, scomparvero dalla vista degli astanti. Dopo circa mezz’ora scorgemmo una figura umana intenta a lottare coi marosi, ma con sorpresa di tutti, l’uomo non tentava di riguadagnare la riva, anzi, nuotava verso il largo. Qualcuno disse: « Fa bene così: cerca la corrente che lo porti ». Senza l’aiuto di una corrente propizia, non avrebbe mai potuto superare i frangenti: la prima violenta compagnia di mare gli avrebbe spossata la colonna vertebrale. Qualcuno tentò di far allontanare le donne. Ci riuscì. Ma una madre non volle muoversi dal suo posto: Raffaela Vianale. Nel frattempo, con la spina dorsale in frantumi, era definitivamente perito in acqua Cetteo Candeloro. Ma Romeo lottava ancora, e sua madre era lì, sulla riva, a seguirne l’agonia, a sorreggerlo, quasi, con la sua muta incrollabile fede. Il suo Romeo aveva solo 16 anni.
Quattro ore durò l’atroce lotta tra un ragazzo e le forze del mare scatenate. A tratti,per interi quarti d’ora, il giovane scompariva alla vista, sommerso e coperto dalle enormi ondate; poi si tornava a scorgerlo, sempre lucido e possente nella sua battaglia ai ferri corti con la morte. Ad un certo punto, si abbandonò. Era la fine? No, aveva trovato la corrente propizia. Ma questa lo portò soltanto a sud, verso la pineta. Raffaela Vianale era sicura che il ragazzo ce l’avrebbe fatta. La donna .seguiva i movimenti del figlio, e sembrava che un invisibile filo tenesse unite le due creature. Ormai gli ultimi raggi del sole morivano lassù dietro i colli; e la madre era sempre lì, immutabile, quasi impassibile, coi piedi sommersi nella spuma selvaggia, col volto fiero proteso verso il vento. Non un gemito, non un lamento dalla sua bocca. Ad un tratto, scorgemmo il giovane dimenarsi tra le onde basse e spumeggianti: aveva trovato il varco; tentava la sua carta, l’ultima che gli restava. Decine di giovani si gettarono allora incontro a lui; lo raggiunsero, lo portarono fuori di peso. Il corpo di Romeo Vianale era tumefatto come se le onde fossero state masse di ferro su quelle giovani carni, il suo volto era esangue. Appena lo presero, capirono subito che quel ragazzo aveva dignitosamente lottato ed era stato onorevolmente sconfitto dalle furie della tempesta: la sua spina dorsale cedeva, la sua fine era prossima. La madre volle la sua creatura, le parlò in un linguaggio d’amore sconosciuto, chiamò il suo nome in mille modi, gli chiese perdono per non averlo potuto aiutare... Lei si trovava al suo posto, ad attenderlo. Questo era il suo dovere. Lo aveva atteso nell’ora della morte come sedici anni prima nel travaglio, lo aveva atteso nell’ ora della vita.
                                                                                     

Aurelio Pomante











          (foto ing. Mario Russo)
L’ultima paranza (lancetta) di proprietà di Eriberto, all’ancora a riva










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Inoltre l’acqua per tanto tempo ha provveduto in toto alle esigenze igieniche della città. Essa è abbastanza torbida perché vi si scaricano i rifiuti urbani e per…     


43. Libro Caripe


Vongolara a vela



Appendice:


Il murè
e una lettera a Il Tempo (1962) del professor Giammarco.

Dal noto dialettologo e libero docente professor Ernesto Giammarco riceviamo e pubblichiamo:
« Caro Falcucci, forse tu non sospetti con quanto interesse io stia seguendo la palpitante
rievocazione dell' "epopea marinara", tanto brillantemente condotta da Aurelio Pomante.
E' un meritato tributo reso a questa fiera e silenziosa gente che custodisce le più belle virtù della nostra stirpe: il coraggio. il silenzio, la lealtà.
Ed è più che giusto che i nostri concittadini, presi oggi in altre attività, sappiano che la prima gloria della città e il suo primo impulso scaturirono da "tutto un popolo di pescatori"..
Ora nella sua quarta puntata, l'articolista dichiara — e questa umiltà culturale gli fa onore — di ignorare la derivazione della voce muré, di cui esisteva anche un “mure da la véle” che aveva il compito specifico, quasi una promozione, di "ammazzare", ossia "legare la vela".
Era sufficiente che l'articolista aprisse il Dizionario di Marina, dell'Accademia d'Italia, Roma,1937, alla voce more, per sapere che, secondo il Boerio, deriva forse dal greco moderno more, vocativo di moros "nero", che si usa anche quale appellativo familiare per "ehi tu'".
A Cipro, però, moros, e a Chio,moro, valgono "bambino".



Il battellante

Un battellante, dopo essere stato murè e pescatore, era diventato mio padre  Silvio “Silvino” Spina, classe 1906.
Il battellante era un giovane che alla guida di un battello a vela, di circa 6 metri, andava incontro alle paranze nella tarda mattinata per portare i rifornimenti a bordo e per caricare il pescato e portarlo velocemente a terra, all’asta del pesce.
Di solito si creava una gara fra i battellanti per arrivare per primi a portare il pesce all’asta ed ottenere così i prezzi migliori.

Per mio padre il passaggio negli anni da murè sulle paranze prima e a battellante poi, da pescatore sui pescherecci di famiglia ("Pasquale Padre" e "Anna Madre") a frequentatore dell’asta, da astatore a commerciante di pesce all’ingrosso e al minuto, è stato il naturale sviluppo della sua vita.
Come pescatore, mi raccontò, poi, che andava in mare per la pesca delle sogliole ("a sfuiare") insieme e in società con "Ricuccio", il padre di Adamo dell'omonimo ristorante, ex “La tartana”.
Come astatore ha sempre cercato di dare un prezzo “giusto” al prodotto dei pescatori.
 E’ sempre stato avaro di parole ma non di esempio, lavorando onestamente 18-20 ore al giorno, normalmente. 
Quando rientrava a casa la sera, di solito noi eravamo già a dormire; quando ci svegliavamo la mattina, era già uscito da diverse ore. 
E qualche volta le tre o quattro ore di sonno se le faceva seduto su una sedia al bar del porto (me l'ha raccontato un vecchio della Marina).

Queste confidenze  me le ha fatte quando io avevo superato i 20 anni ed egli era in pensione.

        "Silvino" da militare, in Marina, a 18 anni, quando  era pilota del motoscafo addetto all’Ammiraglio dell’epoca.






L’autentico brodetto si prepara così.
di  Aurelio Pomante

Il brodetto si approntava quando tornavano i marinai e solo quando essi erano in casa si comprava il vino: il pesce era portato a terra dai pescatori già curato e lavato con acqua di mare.
Sul brodetto sono stati scritti decine di articoli e molti ristoranti che vanno per la maggiore
credono di poter imitare quello preparato a bordo delle barche o nelle case dei pescatori
Come si preparava l'autentico brodetto che di solito i marinai cucinavano in mare, verso le dieci del mattino, col pesce pescato durante la prima cala.
Ecco la vecchia ricetta che trascriviamo per la gioia anche degli odierni palati.
Si sceglie, naturalmente, prima di tutto il pesce: rospo, scorfano, qualche polpetto, gattuccio,occhialina (razza), “ragnolo”, testone, “mazzolina” e possibilmente alcune aragostine, eccetera: si escludono tutti i pesci azzurri, il merluzzo e altre qualità (solo qualche merluzzetto).
I pesci così scelti si «curano»; cioè si tolgono le interiora, le pinne e le squame; poi si lavano bene bene per almeno quattro volte, sempre con acqua di mare.
Intanto si accende il fuoco (oggi quasi tutti i motopescherecci usano il gas liquido, ma una volta si usava il carbone) e vi si pone sopra il tegame per il soffritto.
Per un chilo e mezzo di pesce, si versano nel tegame circa un quarto d'olio, sei o sette peperoni dolci essiccati: ed a fuoco lento si fa soffriggere.
Non appena rosolati i peperoni si tirano via e si lasciano raffreddare in un piatto, per poi essere polverizzati in un « mortaio », dove subito dopo si versa un mezzo bicchiere d'aceto rosso e un po’ d’acqua. Con un coltello si mescola il contenuto e si versa il tutto nel tegame.
Non appena il sugo accenna a bollire, si cala il pesce: prima i pezzetti dei polpi, poi lo scorfano, indi tutti gli altri. Si copre il recipiente e si lascia cuocere con fuoco allegro e continuo: dopo circa un quarto d'ora di cottura il « brodetto » è bello e pronto. '
Con le barche a vela il pranzo, nei mesi caldi, si consumava a prua, dove c'era l'ombra del flocco.
I pescatori si accosciavano e formavano un circolo.
Poi si lavavano due bacinelle di terracotta: una profonda per il sugo, l'altra meno profonda per il pesce.(la stessa della cottura,ndr)
Si affettava il pane, su cui ognuno poggiava il pesce a mo’ di piatto..
Quando tutto era pronto, il parò con la mano destra toccava la «coperta» della barca, si baciava i polpastrelli delle dita e pronunziava il nome di Cristo: precisamente
« Gesucristo».
Soltanto dopo tale “cerimonia" poteva essere consumato il pasto: comunque il primo a bagnare il piatto nel “sugo o brodo” ed a prendere il pesce, con la punta del coltello, doveva essere il parò.
A titolo di cronaca aggiungiamo che oggi quasi più nessuno usa per il brodetto l’aceto rosso perché le nuove generazioni non hanno il … fegato in ordine: si preferisce il pomodoro a pezzetti.
Ma resta assodato che la segreta ricetta per l’autentico brodetto può così sintetizzarsi: scelta del pesce (ripetiamo niente merluzzo); acqua di mare per lavare il pesce; poca acqua nel sugo.



Fine prima parte: Storia del Porto nell'antichità 




marzo 2011 (aggiornato 14/02/2015)




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